di Filippo Peretti
da La Nuova Sardegna del 26 marzo 2012
CAGLIARI. Dice: la storia non si ripete mai. Eppure la Regione degli anni Duemila, sollevando i toni nel confronto con lo Stato, ha rispolverato pagine politiche di mezzo secolo fa: quelle della cosiddetta «Autonomia contestativa» di Paolo Dettori, da molti ancora considerato, assieme a Mario Melis, il presidente-simbolo della lotta per l’autogoverno.
È credibile questa nuova rivolta istituzionale contro Roma? Partiamo da lontano. Dalle prime elezioni del 1949 la Regione ha vissuto fasi storiche molto diverse. Sul piano strettamente politico i vari passaggi assomigliano in larga misura a quelli nazionali, con la lunga stagione del dominio democristiano. Sul piano istituzionale, invece, i mutamenti sono stati provocati dal modo di intendere l’Autonomia nata con lo Statuto speciale del febbraio 1948.
Nel periodo iniziale la Regione è disegnata sul modello burocratico statale e contribuisce alla ripresa post-bellica. Dal 1958, con gli otto anni di presidenza di Efisio Corrias, prende avvio l’epoca della Rinascita in un clima di fermento e di realizzazioni (nel 1965 l’assessorato all’Industria vince il premio sino ad allora assegnato dalla Confindustria all’imprenditore dell’anno). È una politica che guarda verso Roma per avere aiuti e ispirazioni.
Una svolta viene impressa dalla breve ma intensa presidenza di Paolo Dettori, undici mesi dal 1966 al 1967. E’ la nascita dell’«autonomia contestativa» nel rapporto con lo Stato, frutto dell’azione dei “giovani turchi” di Francesco Cossiga (all’epoca già in carriera nella capitale), Nino Giagu e Pietro Soddu (entrambi futuri presidenti). È l’idea di passare da una Regione più somigliante a un ente di decentramento amministrativo a una Regione con l’ambizione dell’autogoverno in un confronto di pari dignità con lo Stato.
Ed eccoci all’oggi. Con Renato Soru prima e negli ultimi sette mesi con Ugo Cappellacci, la Regione torna sulla linea contestativa, anche se per ragioni diverse. Soru dà l’impressione di fare questa scelta soprattutto per la crescente contrapposizione politica al governo Berlusconi. Cappellacci per cercare di coprire in tutta fretta i primi due fallimentari anni di presidenza trascorsi all’ombra di Palazzo Chigi (e Arcore).
Ora, pochi giorni fa, il Consiglio regionale ha approvato un ordine del giorno che sfida lo Stato a dimostrare la lealtà istituzionale che giustifichi la permanenza della Sardegna nella Repubblica italiana. E’ un crescendo che, fatta eccezione per gli indipendentisti dichiarati, non ha un retroterra politico e culturale. Tanto che la minaccia di secessione può apparire del tutto strumentale: un po’ come pressione sul governo Monti, un po’ come alibi di una classe politica regionale che sposta l’attenzione per nascondere i propri ritardi e le proprie inefficienze.